LECTIO DIVINA SUL VANGELO domenicale - 6
20 novembre 2016 – 34ª domenica Tempo Ordinario
Solennità di Cristo Re dell’universo
Ciclo liturgico: anno C
Benedetto colui che viene nel nome del Signore!
Benedetto il Regno che viene, del nostro padre Davide!
Luca 23,35-43 (2 Sam 5,1-3 - Salmo: 121 - Col 1,12-20)
O Dio Padre, che ci hai chiamati a regnare con te nella giustizia e nell’amore, liberaci dal potere delle tenebre; fa’ che camminiamo sulle orme del tuo Figlio, e come lui doniamo la nostra vita per amore dei fratelli, certi di condividere la sua gloria in paradiso.
Nota: i vv. 33 e 34 non verranno letti nel brano che ascolteremo domenica.
Spunti per la riflessione
Un re sbilenco
Questa è l’ultima domenica dell’anno, gli amici ambrosiani, invece, hanno già iniziato l’avvento. Insieme, comunque, celebriamo la vera follia del cristianesimo, la non-festa che, se presa sul serio, ci farebbe tutti mettere in ginocchio ad adorare l’infinita misura di Dio.
Oggi celebriamo la regalità di Cristo o, come recita pomposamente la dicitura sul Messale, la Solennità di Gesù Cristo re dell’Universo.
Era l’ora, finalmente, ci mancava. Le istituzioni degli uomini vacillano, le ansie di cui domenica scorsa stringono il cuore di tutti, credenti o meno, non ci dispiacerebbe un bel finale della storia con l’arrivo dei nostri, come nei film western degli anni Sessanta.
Cristo re. Ma dove?
Guardare oltre
Le ragioni per scoraggiarsi non mancano, e la fragile storia fatta di armi e di violenza, continua a dettare legge. Non è cambiato molto in questi duemila anni di cristianesimo, il Regno sembra essere un bel progetto rimasto sulla carta, un afflato spirituale di qualche sognatore.
La festa di oggi, invece, è una provocazione alla nostra tiepida fede, che sfida la nostra fragile contemporaneità, il nostro cristianesimo miope, fatto di piccoli progetti.
Cristo è re, significa dire che Lui avrà l’ultima parola sulla storia, su ogni storia, sulla mia storia personale. Dire che Cristo è re, significa non arrendersi all’evidenza della sconfitta di Dio e dell’uomo, credere che il mondo non sta precipitando nel caos, ma nell’abbraccio tenerissimo e gravido del Padre. Dire che Cristo è re, significa creare spazi di rappresentanza del Regno là dove stiamo vivendo la nostra vocazione alla vita, piccoli spazi pubblicitari per dire agli smarriti di cuore: ecco, Dio vi ama.
Oggi è la festa in cui le comunità guardano avanti, al di là e al di dentro dei nostri limiti e dei nostri sforzi perché, sempre, il metro di giudizio del nostro essere Chiesa è la realizzazione del Regno.
Un re bislacco
Peggio: la regalità di Gesù è una regalità che contraddice la nostra visione di Dio.
Perché questo Dio è più sconfitto di tutti gli sconfitti, fragile più di ogni fragilità. Un re senza trono e senza scettro, appeso nudo ad una croce, un re che necessita di un cartello per essere identificato.
Ecco: questo è il nostro Dio, un Dio sconfitto.
Non un Dio trionfante, non un Dio onnipotente, ma un Dio osteso, mostrato, sfigurato, piagato, arreso, sconfitto.
Una sconfitta che, per Lui, è un evidente gesto d’amore, un impressionante dono di sé.
Un Dio sconfitto per amore, un Dio che - inaspettatamente - manifesta la sua grandezza nell’amore e nel perdono. Dio - lui sì - si mette in gioco, si scopre, si svela, si consegna.
Dio non è nascosto, misterioso: è evidente, provocatoriamente evidente; appeso ad una croce, apparentemente sconfitto, gioca il tutto per tutto per piegare la durezza dell’uomo.
Gesù è venuto a dire Dio, a raccontarlo. Lui, figlio del Padre ci dona e ci dice veramente chi è Dio. E l’uomo replica. “No, grazie”. Forse preferiamo un Dio un po’ severo e scostante, sommo egoista bastante a se stesso, potente da convincere e da tenere buono.
Forse l’idea pagana di dio che ci facciamo ci soddisfa maggiormente perché ci assomiglia di più, non ci costringe a conversione, ci chiede superstizione; non piega i nostri affetti, solo li solletica.
Salva te stesso
La chiave di lettura del vangelo di oggi è tutta in quell’inquietante affermazione della folla a Gesù: “Se tu sei il re dei Giudei, salva te stesso”. Frase che Luca fa dire anche ai sacerdoti e ai soldati pagani: tutti concordano nel ritenere un segno di debolezza il dover dipendere dagli altri.
Il potente, così come ce lo immaginiamo, è colui che salva se stesso, può permettersi di pensare solo a sé, ha i mezzi per essere soddisfatto, senza avere bisogno degli altri.
Dio è ciò che non possiamo permetterci di essere, il più potente dei potenti, che può tutto, che non ha bisogno di niente e di nessuno, beato lui! Per dimostrare di essere veramente Dio, Gesù deve mostrarsi egoista perché, nel nostro mondo piccino, Dio è il Sommo egoista bastante a se stesso, beato nella sua perfetta solitudine. Dio diventa la proiezione dei nostri più nascosti e inconfessati desideri, è ciò che ammiriamo nell’uomo politico riuscito, ricco e sicuro, allora cerchiamo di sedurlo, di blandirlo, di corromperlo.
No, il nostro Dio non salva se stesso, salva noi, salva me.
Dio si auto-realizza donandosi, relazionandosi, aprendosi a me, a noi.
Ladri e ladroni
I due ladroni - infine - sono la sintesi del diventare discepoli. Il primo sfida Dio, lo mette alla prova: se esisti fa che accada questo, liberami da questa sofferenza, salva te stesso (di nuovo!) e noi, e me. Concepisce Dio come un re di cui essere suddito.
Ma a certe condizioni, ottenendo in cambio ciò che desidera: una redenzione in extremis. Non ammette le sue responsabilità, non è adulto nel rileggere la sua vita, tenta il colpo. Non è amorevole la sua richiesta: trasuda piccineria ed egoismo. Come - spesso - la nostra fede. Cosa ci guadagno se credo?
L’altro ladro, invece, è solo stupito. Non sa capacitarsi di ciò che accade: Dio è lì che condivide con lui la sofferenza. Una sofferenza conseguenza delle sue scelte, la sua. Innocente e pura quella di Dio. Ecco l’icona del discepolo: colui che si accorge che il vero volto di Dio è la compassione e che il vero volto dell’uomo è la tenerezza e il perdono. Nella sofferenza possiamo cadere nella disperazione o ai piedi della croce e confessare: davvero quest’uomo è il Figlio di Dio.
Per i cardiopatici: conclusione da non leggere
Che re, sbilenco, amici. Un re che indica un altro modo di vivere, che contraddice il nostro “salvare noi stessi” per salvare gli altri o - meglio - per lasciarci salvare da Lui.
Siamo onesti, amici: lo vogliamo davvero un Dio così? Un Dio debole che sta dalla parte dei deboli? È questo, davvero, il Dio che vorremmo? Di quale Dio vogliamo essere discepoli? Di quale re vogliamo essere sudditi?
Non date risposte affrettate, per favore, altrimenti ci tocca convertirci.
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L’Autore
Paolo Curtaz
Ultimogenito di tre fratelli, figlio di un imprenditore edile e di una casalinga, ha terminato gli studi di scuola superiore presso l’istituto tecnico per geometri di Aosta nel 1984, per poi entrare nel seminario vescovile di Aosta; ha approfondito i suoi studi in pastorale giovanile e catechistica presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma (1989/1990).
Ordinato sacerdote il 7 settembre 1990 da Ovidio Lari è stato nominato viceparroco di Courmayeur (1990/1993), di Saint Martin de Corlèans ad Aosta (1993/1997) e parroco di Valsavaranche, Rhêmes-Notre-Dame, Rhêmes-Saint-Georges e Introd (1997/2007).
Nel 1995 è stato nominato direttore dell’Ufficio catechistico diocesano, in seguito ha curato il coordinamento della pastorale giovanile cittadina. Dal 1999 al 2007 è stato responsabile dell’Ufficio dei beni culturali ecclesiastici della diocesi di Aosta. Nel 2004, grazie ad un gruppo di amici di Torino, fonda il sito tiraccontolaparola.it che pubblica il commento al vangelo domenicale e le sue conferenze audio. Negli stessi anni conduce la trasmissione radiofonica quotidiana Prima di tutto per il circuito nazionale Inblu della CEI e collabora alla rivista mensile Parola e preghiera Edizioni Paoline, che propone un cammino quotidiano di preghiera per l’uomo contemporaneo.
Dopo un periodo di discernimento, nel 2007 chiede di lasciare il ministero sacerdotale per dedicarsi in altro modo all’evangelizzazione. Oggi è sposato con Luisella e ha un figlio di nome Jakob.
Nel 2009 consegue il baccellierato in teologia presso la Facoltà teologica dell’Italia Settentrionale di Milano con la tesi La figura del sacerdozio nell’epistolario di don Lorenzo Milani e nel 2011 la licenza in teologia pastorale presso l’Università Pontificia Salesiana di Roma, sezione di Torino, con la tesi Internet e il servizio della Parola di Dio. Analisi critica di alcune omelie presenti nei maggiori siti web cattolici italiani.
Insieme ad alcuni amici, fonda l’associazione culturale Zaccheo (2004) con cui organizza conferenze di esegesi spirituale e viaggi culturali in Terra Santa e in Europa.
Come giornalista pubblicista ha collaborato con alcune riviste cristiane (Il Nostro Tempo, Famiglia Cristiana, L’Eco di Terrasanta) e con siti di pastorale cattolica.
Nel 1999 è stato uno dei protagonisti della campagna pubblicitaria della CEI per l’8x1000 alla Chiesa cattolica. Come parroco di Introd ha accolto per diverse volte papa Giovanni Paolo II e papa Benedetto XVI nelle loro vacanze estive a Les Combes, villaggio di Introd.
Esegesi biblica
La crocifissione (23, 33-43)
Il Crocifisso di Luca non sta in silenzio, ma parla: alle folle, al Padre, al ladrone pentito. La prima parola di Gesù è stata per le donne, invitandole alla conversione. La seconda parola è per i suoi crocifissori: “Padre, perdonali perché non sanno quello che fanno” (23,34). Gesù non solo perdona, ma scusa. Non muore minacciando il giudizio di Dio, ma perdonando e scusando.
Il perdono non è certo solo rivolto ai romani, ma anche agli ebrei, a tutti. Questa misericordia di Gesù non sorprenda il lettore. Tutta la passione secondo Luca è infatti attraversata dalla misericordia: il gesto di Gesù che guarisce l’orecchio del servo del sommo sacerdote, lo sguardo a Pietro che lo rinnega, la parola del perdono ai crocifissori.
Morire perdonando è un tratto del martire cristiano. Luca lo ricorderà negli Atti degli Apostoli, raccontando il martirio si Stefano (7,60). Gesù sulla croce, però, non è solo la figura del martire che perdona, ma la figura dell’amore di Dio per l’uomo, non semplicemente dell’amore dell’uomo per Dio.
Ai piedi della croce ci sono il popolo, i capi dei giudei e i soldati. Ma l’attenzione non è mai distolta dal Crocifisso: a lui si guarda e di lui si parla, in questione è sempre la sua identità. Il popolo sta immobile a guardare, un guardare interessato, partecipe, non semplicemente curioso o indifferente. I capi e i soldati lo schernivano ripetutamente. I verbi usati sono di derisione per la sua pretesa messianica e il suo considerarsi amato da Dio con amore di predilezione (l’eletto). I soldati, invece, canzonano per la sua pretesa regalità. Collocato in questo punto preciso, anche il cartello con l’iscrizione della condanna sembra enfatizzare lo scherno.
Così sulla croce Gesù è raggiunto per l’ultima volta dalla tentazione, che però non è più Satana, ma dei capi, dei soldati, e subito dopo anche del malfattore crocifisso con lui: se sei l’eletto di Dio, perché non ti aiuta? Il suo silenzio non è la prova del tuo errore? Il fallimento della strada dell’amore che hai percorso non è il segno che la via di Dio è un’altra? Ma a queste domande il Crocifisso non risponde. Il silenzio di Dio è il segno di un altro modo di farsi presente e di parlare.
Luca prosegue raccontando una dopo l’altra le reazioni dei due malfattori “appesi” con lui. Le due figure sono radicalmente contrapposte. Il primo malfattore è probabilmente un indomabile zelota, che anche nella morte resta fedele alla sua scelta di ribellarsi al dominio straniero per instaurare il regno di Dio. Per lui un Messia che muore in croce e non salva se stesso, né quelli che hanno lottato per la sua causa, rappresenta uno sconfitto. Diversamente dal primo, il secondo malfattore confessa senza attenuanti la propria colpa, riconosce l’innocenza di Gesù e si affida a lui. Accogliendolo prontamente, Gesù compie nella sua morte ciò che ha fatto lungo tutta la vita: accogliere i peccatori (15,2). E mostra, al tempo stesso, che la sua salvezza è diversa da quella sognata dai capi, dai soldati e dal malfattore ostinato.
Si noti la solennità della promessa di Gesù (”in verità”) e la sua sicurezza (”ti dico”). Qui Gesù non prega, non chiede a Dio, ma garantisce una vita di comunione con lui (”sarai con me”) e subito (”oggi”).